Post by Peppe Graziano on May 2, 2019 6:41:22 GMT 1
A me, la lingua Inglese piace, che ci posso fare?
Ho sempre notato che ci sono alcune espressioni, alcuni termini, che nella nostra pur bellissima lingua, non hanno la stessa efficacia dei loro corrispondenti termini in Inglese.
Questa cosa mi ha colpito, quando ho scoperto che il messaggio che don Milani scrisse sui muri della famosa scuola di Barbiana, era I care.
Una frase brevissima, semplice, sintetica, efficace, che se proviamo non tanto a tradurla, ma a pensarla, in Italiano, non so ad altri, ma a me fa un effetto strano: diventa enorme.
Io ci trovo tanto, e di tutto, in quelle due parole.
Ci trovo ho cura di te, mi stai a cuore, sono qui per aiutarti, sei importante per me come io vorrei esserlo per te, e via dicendo, seguendo questo filone emozionale.
Non so, forse esagero?
Non credo, visto come don Milani amò i suoi studenti, arrivando a scrivere loro, nel suo testamento, queste parole: ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.
Ehm, don Lorenzo, hai scritto proprio al suo conto?
Cos’è, fai la contabilità con Dio, dare e avere?
No, dai, scherzo, figuriamoci se Dio ha un libro mastro dove registra l’amore in partita doppia, con le colonne dare e avere, e che fa, magari ci calcola pure l’IVA o la ritenuta d’acconto?
Ma, ecco, volevo spiegare perché i miei pensieri sono andati a disturbare il buon don Lorenzo.
Mi è successo in ospedale, dove mi trovavo per aiutare una persona amica ricoverata, e lì, riflettendo, mi è venuto in mente come, nella nostra lingua, sia possibile descrivere ciò che stavo facendo in due modi.
Ero lì per dare aiuto, ma avrei anche potuto dire che ero lì per prestare aiuto.
Sinonimi, sì, ma in Inglese, come si dice prestare? Ah, to lend.
Ma io non ho mai incontrato quel verbo unito alla parola help, aiuto, mi suona sgradevole solo a pensarlo.
Lend help? (mamma mia!)
Ma volete mettere un bel give help?
E allora, penso che forse non è poi tanto una questione di lana caprina, distinguere tra prestare e dare aiuto, e l’invidia per la sbrigativa, ma efficace lingua inglese, si è ammosciata.
Prestare, dice la Treccani, è dare ad altri una cosa col patto che la restituisca dopo averne fatto un certo uso, ma come si fa a prestare l’aiuto, a prestare soccorso?
Ma io, quando aiuto qualcuno, non mi aspetto certo che costui me lo restituisca, quell’aiuto, io l’aiuto lo porgo, anzi, direi piuttosto che lo dono.
Ah, il dono, che bella parola, che bell’atto, donare, che per me è diverso da quello del regalare, e qui dovrei azzuffarmi con Marcel Mauss, che nel suo saggio sul dono, non definiva questo come un atto disinteressato, ma una pratica sociale obbligatoria, che rafforza sì i legami sociali, ma implica la restituzione.
Eh no, Marcel, io non ci sto, per me la cosa funziona diversamente.
Il dono di cui parlo io è sentimento puro, non è un fatto sociale, non è una cosa, ma del resto, eri influenzato dallo zio Émile Durkheim, e tanto di cappello a te e al vostro contributo alla sociologia.
Ah, ecco, ecco, dove casca l’asino, con le influenze che mi sono beccato, e non parlo certo di cose curabili con il paracetamolo e lo sciroppo di letto.
Ora sì, che ho capito chi è stato a farmi capire che, se in Inglese si potrà pure dire give sia per donare che per regalare, ma per me invece il dono ha tutt’un altro significato.
E ricordo il primo, che in un momento particolare della mia vita, mi rese partecipe del suo donare incondizionato, del fare qualcosa per gli altri anche se, a un’osservazione di parte, questo atto sembrava quasi follia.
Si chiama Calogero questa persona, persona che io per affetto chiamo sua cattiveria, ma il perché non lo racconto, no, voglio invece raccontare di quel primo momento.
Fu quando gli chiesi come diavolo facesse a non avere voglia di prendere la testa delle persone cui prestare aiuto, svitarla, e vedere cosa [omissis] c’era dentro al posto del cervello, visto che costoro dimostravano un’ingratitudine e un menefreghismo da lasciare senza parole.
Calogero mi rispose che era per spirito di solidarietà umana, e lì per lì pensai che mi stesse dando una risposta diplomatica, e lasciai cadere la questione.
Ma quelle parole mi sono tornate in mente, proprio mentre tenevo la mano della persona cui stavo donando il mio aiuto.
E ho rivisto Calogero, la sua faccia, ho risentito le sue parole, e le ho ritrovate dentro di me.
E ho capito.
Ho capito cosa gli aveva trasmesso don Vincenzo.
Ho capito cosa Calogero, don Vincenzo, Antonio, Angela, EttoreNinoLeanoMicheleFabioSalvo e tutti gli altri mi avevano fatto capire.
Capire poi, e cosa c’è da capire in una cosa così semplice, se non che quando doni il tuo aiuto, la tua ricompensa la ricevi nel momento stesso in cui questo dono lo fai?
La reciprocità non esiste.
La reciprocità siamo noi stessi.
L’aiuto che noi doniamo agli altri, lo doniamo per primi a noi stessi.
Tra l’aiutare gli altri, e aiutare noi stessi, non v’è alcuna differenza, e che senso ha, allora, cercare una contropartita in ciò che doniamo, quando la nostra ricompensa è l’aiuto stesso?
E facendo ciò, banalmente, non facciamo altro che Amarci come Amiamo chi aiutiamo.
Aiutare “è” Aiutarsi, Amare “è” Amarsi, e … tutto ciò che è amato cresce, vero don Vincenzo?